sabato 30 giugno 2007

installazione presso la chiesa templare S. Giovanni Battista di Penne giugno/luglio 07

Tra il cielo e la linea

Antonio Zimarino

La ricerca artistica di Cecilia Falasca è una proposta autonoma all’interno di una precisa identità originaria dell’arte adriatica d’Abruzzo: in essa Cecilia si è formata artisticamente e di essa continua a dibatterne i principi.

C’è stato infatti un periodo nella storia artistica e culturale della nostra Regione in cui la ricerca espressiva ha camminato di pari passo, e in qualche caso ha sopravanzato, quanto in Italia si andava complessivamente elaborando. Negli anni Settanta e fino ai primi degli Ottanta, per molti “anni di piombo”, Pescara vedeva un fiorire di ricerche ed iniziative creative - sperimentali uniche nel panorama nazionale. Nuove gallerie, nuove esperienze collettive, un fervore di relazioni, competizioni, interventi, invenzioni che tramite il Liceo Artistico e i nuovi spazi espositivi pubblici e privati della città coinvolgevano, molti artisti italiani e internazionali che oggi sono considerati tra i maestri della contemporaneità.

In questo crogiolo fertile e contraddittorio di relazioni ed esperienze è nata sul territorio una particolare identità di ricerca che altrove ho chiamato “essenzialismo”: una sorta di riduzione dell’opera ad elementi espressivi primari, che non era e non è semplice “minimalismo” ma un tentativo di andare ad un “punto zero” della pittura e della forma, dove gli elementi scomposti, purificati e ricombinati (razionalmente o organicamente) ridessero possibilità all’espressione, invadendo oltre che gli spazi e le superfici pittoriche, anche gli spazi fisici e relazionali. La ricerca di Di Blasio così come il razionalismo etico di Colangelo, spinsero poi sulle proprie autonome strade Ettore Spalletti e in certo qual modo anche Summa ad affrontare il colore e lo spazio, in rapporti tanto razionalistici, che emotivi tanto spaziali che segnici. Ma questo stesso clima di ricerca spinse altre personalità a percorsi autonomi che tentarono (e tentano) sintesi autonome tra colore, spazio e forma.

Questa brevissima premessa storica mi sembrava fondamentale per affrontare l’apparente semplice ricerca pittorica (ma anche materia e spaziale) di Cecilia Falasca: senza questa premessa non credo sia possibile comprendere il “perché” e il “dove” la sua sensibilità artistica e la sua scelta formale sia nata e nemmeno l’originalità della sua soluzione e della sua “variante”.

nella sua formazione e nella sua vicenda umana Cecilia ha respirato quel clima, ha lavorato con quei maestri e ha tratto delle proprie conclusioni, quelle che oggi cogliamo in questa mostra e in questi spazi: sono immagini in tensione e contemporaneamente armoniche, che si muovono tra la fisicità e l’impalpabile disegno, tra acromia e colore, tra spazio e superficie.

La sua pittura, potremmo dire, è un “non luogo”, uno spazio realisticamente impossibile ma visivamente individuabile, ed è proprio questa particolare caratteristica di “non definizione” che abbiamo voluto sintetizzare nel titolo metaforico della mostra. Le tavole, le linee stesse, gli spazi del dipinto (ma anche questo termine è relativo di fronte alla sostanza materica di queste tavole) hanno una fisicità indubbia che cogliamo soprattutto nel gioco di increspature che la luce realizza. Dentro quella fisicità il colore interviene a tendere dei suoi tracciati che non sono “forme” ma quasi “respiro” della fisicità, una sorta di delineazione del punto in cui l’orizzonte trascende in cielo.

Al di là della suggestione verbale o poetizzante che stiamo utilizzando, è un dato di fatto che quella linea immateriale sa creare spazio e profondità attraverso la sua esattissima disposizione euritmica e armonica che interrompe e anima la sorda acromia del fondo lasciando immaginare disegni e tessiture ben più complessi, rasserenando e dando prospettiva e ipotesi di profondità.

Non è comunque scontato comprendere questo linguaggio fatto di essenzialità e rarefazione: sì, perché se la ridondanza ribadisce e spettacolarizza, l’essenziale svuota e concentra, per cui l’attenzione si sofferma coinvolta a discernere nel caos di una provocazione, ma non ha lo stesso coraggio a spingersi li dove c’è il vuoto, il minimo e l’essenziale. Eppure è sempre lo sguardo che ha il compito prezioso di presentare qualcosa al discernimento ma lo sguardo nel vuoto fa fatica a restare; nell’assenza di forti segnali, il discernimento richiede tempi e maturità di riflessione maggiori, attenzioni profonde e pazienti. Il rischio dell’osservatore di fronte a questo tipo di lavori è esattamente quello di fermarsi solo allo sguardo, dimenticando di innescare attraverso di esso, l’intelligenza e la comprensione necessarie per percorrere la rarefazione.

Dunque è una pittura che impegna profondamente perché chiede di completare intellettualmente l’assenza di segni espliciti, chiede di assentarsi dal contingente per spingersi oltre l’evidenza retorica, attirandoci e legandoci ad un tenue filo di tracce, che pure ci attirano nel loro fluido ed euritmico disporsi, in un afflato di sereno. Cosa troverà il coraggioso, il “paziente” dentro e attraverso queste tracce?

Spazi immaginali, suggestioni rasserenanti, piccoli riverberi, porzioni di definizioni … nulla di eclatante, qualcosa che dà senso ad una piccola parte di un tutto possibile, qualcosa di evanescente e inafferrabile. Ma questo è poco? E’ poco saper dar forma ad un modo essenziale della riflessione sulla condizione umana? Non è questa forse anche una constatazione della relatività e dell’inutilità di ogni pretesa di rappresentare in arte, “verità” e “definizioni ?

Forse solo i piccoli sassi permettono di cogliere la completezza di un percorso: piccole metafore di un universo più grande e impercorribile.

Quella di Cecilia è una pittura che traccia e delinea dei segni certi, che riescono a fissare un’idea di spazio ma che sparendo in una loro ideale prosecuzione, non definiscono ma aprono possibilità: è come se fossero collocati sull’orlo tra rappresentazione e concetto, tra segno e oggetto e quindi occupano un “non luogo”, la linea immateriale di un orizzonte, visivo, fisico e concettuale: aprono possibilità, animano l’occhio e l’immaginazione oltre (ed insieme con) la loro scarna e sottile bellezza elegante.







f.to di Ottavio Perpetua